Con molto piacere, presentiamo il ritratto, ad opera di Anna Maria Franchi, di Aung San Suu Kyi, l'
Orchidea di ferro, appellativo che ben denota la dolcezza, l'ardore e la forza di una donna la cui vita si è interamente spesa per affermare le libertà democratiche.
Buona lettura!
Salutiamo con gioia l’elezione di Aung San Suu Kyi al parlamento birmano. La Birmania (dal 1989 Myanmar) è andata ieri alle votazioni suppletive per eleggere i titolari dei 45 seggi lasciati liberi da parlamentari che nel frattempo sono entrati nel governo e hanno dovuto, per incompatibilità, rinunciare alla loro carica. Si è trattato di elezioni storiche, alle quali ha partecipato, per la prima volta dal 1990, la “Lega nazionale per la democrazia” (Nld), il partito di opposizione della celebre dissidente e premio Nobel per la pace. Poco più di un anno fa, infatti, il regime ha deciso di cambiare linea, forse perché intende davvero avviare la transizione in un paese isolato e impoverito, o forse solo per allentare la pressione internazionale e convincere Europa e Stati Uniti a rimuovere le sanzioni economiche.
La Lady, la signora per antonomasia, come il suo popolo la chiama e come si intitola il film di Luc Besson a lei dedicato, da pochi giorni nelle sale, avrebbe ottenuto l’82% delle preferenze e il suo partito avrebbe conquistato almeno 40 dei 44 seggi in cui si presentava. Un test limitato (appena il 7% del numero complessivo di parlamentari), che tuttavia permetterebbe alla Lega nazionale di guadagnare una rappresentanza nel Parlamento dominato dal “Partito dello sviluppo e della solidarietà dell'Unione”, vicino agli ex generali della giunta militare.
Il risultato elettorale di Suu Kyi è il legittimo, seppur quanto mai tardivo, traguardo conquistato da una donna che ha fatto della lotta per la libertà il senso della sua vita ed è per questo diventata icona mondiale dell’oppressione di regime. Ma il prezzo pagato, sul piano umano in generale e su quello specifico dell’essere donna, è stato altissimo. Nella sua vita si sono intrecciati drammaticamente i ruoli politici e quelli umani, di figlia, moglie, madre.
Il prossimo 19 giugno compirà 67 anni. Combatte da quando ne aveva due, da quando cioè nel 1947 perse il padre, Aung San, protagonista dell’indipendenza birmana dall’Inghilterra, ucciso da avversari politici. Seguì allora la madre, divenuta una figura di spicco del Paese e poi ambasciatrice in India, e poté così frequentare le migliori scuole indiane e inglesi, fino alla laurea ad Oxford, nel 1967, in Filosofia, Scienze Politiche ed Economia. Nel 1972 l’incontro con il futuro marito Michael Aris, studioso di cultura tibetana, buddista e docente a Oxford. Si sposeranno l’anno successivo, quindi i due figli, Alexander e Kin, oggi di 37 e 35 anni. Ma la famiglia non resterà a lungo unita. Suu Kyi sarà costretta ad abbandonarla nel 1988 per rientrare in patria ed assistere la madre gravemente ammalata. Proprio il 18 settembre di quell’anno il generale Saw Maung effettuò un colpo di stato militare, abbattendo il governo legittimo e instaurando quel regime che ancora vige nel Paese. Pochi giorni dopo, il 27 settembre, Suu Kyi, ispirandosi ai principi non violenti del Mahatma Gandhi, fondò la “Lega nazionale per la democrazia”. Nemmeno un anno dopo venne condannata agli arresti domiciliari. Il regime le offrì la possibilità di lasciare il Paese, ma lei rifiutò. Nel 1990 Saw Maung sostenne l'avvio di libere elezioni, ma di fronte alla vittoria schiacciante del principale partito d'opposizione, la “Lega nazionale per la democrazia”, che avrebbe portato Suu Kyi alla guida del Paese, fece marcia indietro e invalidò la consultazione, avviando una nuova campagna di repressione degli oppositori. Nel 1991, quando a Suu Kyi venne assegnato il Nobel per la pace, a ritirare il premio andarono i figli e lei usò i soldi per un fondo a favore del suo popolo. Rifiutò di lasciare il suo Paese anche quando il marito, in Inghilterra, si ammalò di cancro, nel 1997, e quando due anni dopo morì, perché le sarebbe stato negato il permesso di rientrare in Myanmar.
Per 15 degli ultimi 22 anni “la Signora” è stata una detenuta, 7 di questi anni li ha trascorsi agli arresti domiciliari, fino al 13 novembre del 2010 quando, dopo il suo rilascio, sempre con i fiori tra i capelli, ha salutato la folla che l’aspettava.
In pochi mesi, poi, la sua candidatura e ieri l’elezione. Se il cammino del suo Paese verso la democrazia continuerà, tutta la sua vita avrà avuto un senso.
Resta in me, donna, l’ammirazione, e anche un brivido, per questa “Orchidea di ferro”, come viene chiamata dai suoi sostenitori (e l’appellativo ben si adatta a coniugare una sembianza delicata ed elegante con una volontà tenace e indomabile), che ha privilegiato l’assoluta dedizione a un ideale, la libertà del suo popolo, all’amore per i figli, per il marito, sacrificando, oltre ogni naturale impulso femminile, la sua dimensione più affettiva e intima.
(A.M.F.)